giovedì 19 marzo 2015

Siepi, soia o…nessun vincolo

Due realtà simili, due modi molto diversi di vedere la Pac e le sue prescrizioni. Entrambi, ovviamente, con pari dignità, perché derivano da ragionamento, analisi economica e indole personale. Presentiamo, per cominciare, le due aziende: la prima appartiene a Gianluca Micoli e ha sede a San Vito di Fagania, provincia di Udine. Qui l’agricoltore, che lavora da solo svolgendo anche una piccola attività di contoterzismo (effettua servizio liquami per un biodigestore), coltiva 40 ettari con mais, colza, grano e orzo, gli ultimi due seguiti da soia di secondo raccolto. L’altra azienda si trova invece a Lissone, provincia di Milano, e appartiene a Ferruccio Mariani, allevatore di suini e tori da carne, con annessi 55 ettari coltivati esclusivamente a mais (trinciato e pastone) per produrre gli alimenti degli animali. Entrambi gli imprenditori – come tutti i loro colleghi del resto – sono di fronte alla scelta della Pac: come soddisfare le prescrizioni del greening e della rotazione? Micoli, che già oggi applica la diversificazione colturale, pensa a quello che pare essere il più gettonato dei ‘ripieghi’: la soia. «A dire il vero, se facessi bene i conti forse avrei la superficie necessaria al greening soltanto con siepi, fossati e qualche piccola area boschiva marginale, più un po’ di prato stabile che in azienda c’è sempre. Tuttavia non è ben chiaro in che percentuale queste superfici debbano essere considerate e per questo motivo mi metterò in sicurezza seminando il 7% dei terreni con soia di primo raccolto, anziché farla soltanto di secondo». La scelta di Micoli risponde anche a una precisa esigenza agronomica, in un’area scarsamente irrigata: «Nella nostra zona soltanto pochi terreni sono irrigui e pertanto bisogna scegliere bene le colture. Affidarsi a una sola, che sia mais o altro, non è saggio, perché una stagione sbagliata dal punto di vista meteorologico può lasciare dei brutti segni. Perciò la diversificazione fa parte della filosofia aziendale». Questo, continua l’agricoltore, sebbene il mais sia, in Friuli, una pianta dalle performance straordinarie. «Tuttavia è anche una coltura che va spinta molto e che pertanto ha i suoi costi: in anni in cui il prezzo è basso, non è così redditizia. La soia, ma ina lcune circostanze anche la colza, richiede invece meno spese e ha prezzi relativamente stabili, dunque dà più garanzie, anche se non permette guadagni molto elevati». Ferruccio Mariani ha una Sau molto simile al collega friulano, ma con una destinazione del tutto diversa per la produzione: non il mercato, ma la stalla e la porcilaia. Come abbiamo visto, infatti, Mariani è in primo luogo un allevatore; peraltro uno di quelli che applicano, almeno parzialmente, la filiera corta, vendendo in spaccio aziendale una parte delle carni. Coltivando per i propri animali, abbandonare la monocoltura è un grosso problema, come ci spiega: «Diciamo che non me lo posso permettere. Dovrei ridurre il mais per coltivare prodotti che poi non mi servono nella stalla e da vendere quindi sul mercato. A che scopo? È evidente che chi progetta la Pac non ha idea di come sia il lavoro in agricoltura. Che rotazione dovrei fare? Col triticale, che con la paglia nemmeno ci fai la lettiera? Con l’orzo? Ma quando ai tori ne dai mezzo chilo a capo, di orzo, basta e avanza; senza contare che in questa zona non viene nemmeno bene. O forse dovrei seminare la soia, che nemmeno riesco a usarla, nella stalla? Per chi fa allevamento, il mais è la coltura principale e irrinunciabile. Io, peraltro, coltivo per guadagnare: se con la Pac mi fai perdere soldi, non ci siamo». C’è anche, aggiunge l’allevatore, una questione di orgoglio imprenditoriale: «Sono uno spirito libero, appena qualcuno mi dice quel che devo fare, non ci sto. Perché l’Europa deve decidere cosa semino sui miei terreni? A che titolo? È una cosa che non mi va giù, tanto è vero che sto facendo i conti per vedere se mi convenga rinunciare alla Pac pur di coltivare ciò che mi serve davvero. E che, soprattutto, voglio coltivare».

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