Due
realtà simili, due modi molto diversi di vedere la Pac e le sue prescrizioni.
Entrambi, ovviamente, con pari dignità, perché derivano da ragionamento,
analisi economica e indole personale. Presentiamo, per cominciare, le due
aziende: la prima appartiene a Gianluca Micoli e ha sede a San Vito di Fagania,
provincia di Udine. Qui l’agricoltore, che lavora da solo svolgendo anche una
piccola attività di contoterzismo (effettua servizio liquami per un biodigestore),
coltiva 40 ettari con mais, colza, grano e orzo, gli ultimi due seguiti da soia
di secondo raccolto. L’altra azienda si trova invece a Lissone, provincia di
Milano, e appartiene a Ferruccio Mariani, allevatore di suini e tori da carne,
con annessi 55 ettari coltivati esclusivamente a mais (trinciato e pastone) per
produrre gli alimenti degli animali. Entrambi gli imprenditori – come tutti i
loro colleghi del resto – sono di fronte alla scelta della Pac: come soddisfare
le prescrizioni del greening e della rotazione? Micoli, che già oggi applica la
diversificazione colturale, pensa a quello che pare essere il più gettonato dei
‘ripieghi’: la soia. «A dire il vero, se facessi bene i conti forse avrei la
superficie necessaria al greening soltanto con siepi, fossati e qualche piccola
area boschiva marginale, più un po’ di prato stabile che in azienda c’è sempre.
Tuttavia non è ben chiaro in che percentuale queste superfici debbano essere
considerate e per questo motivo mi metterò in sicurezza seminando il 7% dei
terreni con soia di primo raccolto, anziché farla soltanto di secondo». La
scelta di Micoli risponde anche a una precisa esigenza agronomica, in un’area
scarsamente irrigata: «Nella nostra zona soltanto pochi terreni sono irrigui e
pertanto bisogna scegliere bene le colture. Affidarsi a una sola, che sia mais
o altro, non è saggio, perché una stagione sbagliata dal punto di vista
meteorologico può lasciare dei brutti segni. Perciò la diversificazione fa
parte della filosofia aziendale». Questo, continua l’agricoltore, sebbene il
mais sia, in Friuli, una pianta dalle performance straordinarie. «Tuttavia è
anche una coltura che va spinta molto e che pertanto ha i suoi costi: in anni
in cui il prezzo è basso, non è così redditizia. La soia, ma ina lcune circostanze
anche la colza, richiede invece meno spese e ha prezzi relativamente stabili,
dunque dà più garanzie, anche se non permette guadagni molto elevati».
Ferruccio Mariani ha una Sau molto simile al collega friulano, ma con una
destinazione del tutto diversa per la produzione: non il mercato, ma la stalla
e la porcilaia. Come abbiamo visto, infatti, Mariani è in primo luogo un
allevatore; peraltro uno di quelli che applicano, almeno parzialmente, la
filiera corta, vendendo in spaccio aziendale una parte delle carni. Coltivando
per i propri animali, abbandonare la monocoltura è un grosso problema, come ci
spiega: «Diciamo che non me lo posso permettere. Dovrei ridurre il mais per
coltivare prodotti che poi non mi servono nella stalla e da vendere quindi sul
mercato. A che scopo? È evidente che chi progetta la Pac non ha idea di come
sia il lavoro in agricoltura. Che rotazione dovrei fare? Col triticale, che con
la paglia nemmeno ci fai la lettiera? Con l’orzo? Ma quando ai tori ne dai
mezzo chilo a capo, di orzo, basta e avanza; senza contare che in questa zona
non viene nemmeno bene. O forse dovrei seminare la soia, che nemmeno riesco a
usarla, nella stalla? Per chi fa allevamento, il mais è la coltura principale e
irrinunciabile. Io, peraltro, coltivo per guadagnare: se con la Pac mi fai
perdere soldi, non ci siamo». C’è anche, aggiunge l’allevatore, una questione
di orgoglio imprenditoriale: «Sono uno spirito libero, appena qualcuno mi dice
quel che devo fare, non ci sto. Perché l’Europa deve decidere cosa semino sui
miei terreni? A che titolo? È una cosa che non mi va giù, tanto è vero che sto
facendo i conti per vedere se mi convenga rinunciare alla Pac pur di coltivare
ciò che mi serve davvero. E che, soprattutto, voglio coltivare».
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