lunedì 6 marzo 2017

Dalla società agricola a quella industriale

Le trasformazioni economiche che segnano l’Europa e il mondo in età contemporanea sono dominate dall’espandersi e dall’affermarsi, in tempi e modalità differenti, del modello produttivo industriale e da una straordinaria crescita dell’industria manifatturiera e dei servizi. Basti ricordare che, secondo alcuni calcoli, la produzione industriale mondiale sarebbe cresciuta di quasi 90 volte in poco più di due secoli, dai decenni successivi alla metà del Settecento al 1980.
Il nuovo protagonismo del settore industriale si accompagna, nel corso dei secoli dell’età contemporanea, alla progressiva riduzione del ruolo dell’agricoltura nell’economia.
Fino al Settecento, l’agricoltura è la fonte principale di ricchezza, di potere e di occupazione. Se si esclude l’Inghilterra, in quasi tutta l’Europa (ma anche nel resto del mondo) almeno l’80% della popolazione lavora la terra e vive di agricoltura in campagna, in villaggi o fattorie isolate. Ciò significa che, su 100 persone che lavorano, almeno 80 sono contadini che col loro lavoro mantengono se stessi e una ventina di persone dedite ad altre attività (clero, governanti, mercanti, artigiani, professionisti, ecc.).

Nel corso dell’Ottocento, e ancor più nel Novecento, con il procedere dell’industrializzazione, si assiste a un ridimensionamento dell’agricoltura, che progressivamente cessa di essere l’attività economica predominante in un numero crescente di paesi industrializzati. Progressivo è, infatti, il declino della quota della popolazione attiva impiegata nell’agricoltura e della quota percentuale del settore agricolo nel reddito nazionale, che oggi in molti paesi rappresenta meno del 5% del reddito e degli occupati (in Italia il 3,8% circa).
Il processo è lento, avviene sul lungo periodo e in tempi diversi nei diversi Stati: l’agricoltura conserva un ruolo centrale in molti paesi europei ben oltre l’Ottocento (in Italia, ancora nel secondo dopoguerra, l’agricoltura fornisce un quarto della ricchezza nazionale). Il calo della popolazione agricola sotto il 50% della popolazione attiva poi non si verifica prima del XX secolo nella maggior parte dei paesi europei e ha luogo solo nel secondo dopoguerra in gran parte dell’Europa orientale e meridionale. In Italia, ad esempio, il numero di addetti all’agricoltura scende dal 61% del 1900-1910, al 55% del 1920-1930, al 42,2% del 1951, all’attuale 3,8%. Oggi, solo nei paesi più arretrati tale percentuale si aggira intorno al 40-50%.

Declino dell’agricoltura, crescita della produttività
Il declino dell’agricoltura nei paesi industrializzati in termini di reddito e di occupati si accompagna, con apparente paradosso, a una crescita della produzione e della produttività dell’agricoltura senza precedenti. Secondo le stime di Paul Bairoch, in tutta Europa la produzione di grano aumenta del 45% nel XIX secolo, del 23% nella prima metà del Novecento, e del 193% tra il 1950 e il 1985. Dunque, il settore agricolo non può essere considerato né povero né residuale. Conosce al contrario sviluppi giganteschi e contribuisce notevolmente al progresso economico del mondo occidentale permettendo di superare il rischio di carestie (l’ultima grande carestia europea si verifica in Irlanda tra il 1845 e il 1851 causando la morte di un milione di persone, 1/8 circa della popolazione irlandese), vincere seppur lentamente la malnutrizione e sostenere una popolazione in crescita.



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