giovedì 27 luglio 2017

Il futuro del cibo italiano va oltre l’etichettatura, servono progetti di lungo respiro per grano, latte e riso

La trasparenza, la tracciabilità e soprattutto la qualità del cibo sono asset importanti su cui, come Cia – agricoltori italiani, ci siamo da sempre concentrati, cogliendone il valore e lavorando per giungere alle giuste normative che le tutelino e soprattutto garantiscano il consumatore e le imprese. Le ultime in ordine di tempo, quelle del latte, pasta e riso hanno, in tal senso, una loro validità, anche se nel più ampio progetto andrebbero inseriti piani di lungo respiro per le filiere che sappiano garantire, da un lato buoni introiti a chi realizza i prodotti made in Italy, dall’altro ottima qualità e prezzi di acquisto per chi li consuma. Fermandoci alle sole etichette, senza guardare al complessivo, si rischia di essere tacciati di velato protezionismo.

Voglio affidare dunque a queste pagine una mia riflessione, nella speranza di aprire un proficuo e sereno dibattito.

Il latte e i suoi derivati, la filiera del grano ed il comparto del riso italiani, con le loro potenzialità, non devono essere relegati a mero veicolo di comunicazione, puntando esclusivamente sull’etichettatura, ancorché utile. Del resto, l’equazione etichetta uguale benefici per produttori e consumatori non è una soluzione algebrica, anzi si rischia così di creare scappatoie e avere un approccio che, tra l’altro, può vanificare i risultati ottenuti in Europa negli ultimi decenni sul fronte della trasparenza alimentare.
Da quando sono stati istituiti negli anni ’90, i marchi Dop, Igp, e del biologico, questi, infatti, hanno rappresentato la principale esperienza normativa sul fronte della rintracciabilità, della trasparenza alimentare e dei controlli, anche grazie al ruolo di garanzia esercitato dai Consorzi di tutela. Un sistema, quello delle denominazioni di origine, che vede il nostro Paese leader indiscusso a fronte di 855 riconoscimenti e che non può essere messo a rischio dal ricorso, soprattutto se eccessivo e mal gestito, di sistemi di etichettatura non condivisi su scala comunitaria.
In quest’ottica, prendendo ad esempio l’etichetta del latte italiano, leggendo bene, sia nel provvedimento che, nella circolare interministeriale che la accompagna, mi sembra di trovare delle incongruenze rispetto alla sua effettiva applicabilità e alla sua efficacia, soprattutto in considerazione dell’assenza di un quadro legislativo europeo sul tema. Andando dietro ad etichette fin troppo complesse si rischia, infatti, di distrarsi, non cogliendo fino in fondo le due questioni centrali: il latte fresco è veramente un “core” di prospettiva per il settore in Italia? “Spendersi” così tanto a Bruxelles per ottenere queste norme non rischia di metterci nelle condizioni di non avere crediti in Europa? Magari da spendere su temi più decisivi per l’agricoltura e l’agroalimentare di casa nostra? Il rischio è che le risposte a questi quesiti non siano positive per agricoltori e consumatori.
Alle volte, si ha l’impressione che la sostanza lasci il passo all’apparenza, con leggi da cui traggono beneficio propagandistico solo coloro che le hanno promosse o cavalcate a furor di popolo, senza vantaggi reali per i destinatari delle stesse norme.
In questo scenario mi sorprende come la politica, invece di adottare interventi spot, non punti decisa verso una strategia di valorizzazione del vero Made in Italy, lì dove il valore aggiunto garantirebbe margini, più ampi, per tutti i soggetti della filiera.

È giunto il momento di guardare oltre e lavorare uniti per la realizzazione di tale obiettivo. A trarne vantaggio, non sarebbe soltanto l’agricoltura, ma l’intero sistema socio economico nazionale.

Autore: Dino Scanavino

Fonte: Nientedipersonale.com

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